Il lungo viaggio della birra
- Stefania Marra
- 17 ott 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 15 nov 2020
Diversi anni fa, quando anche in Italia si cominciava a produrre birra artigianale, pensai che era il momento di scoprire qualcosa in più su questa antichissima bevanda. Col tempo ho coltivato questa curiosità; non solo bevendo (so che lo avete pensato!), ma anche leggendo tanto, fino a condurre degustazioni guidate di abbinamento col cibo: non pizza o wurstel, ma piatti comuni della dieta mediterranea.
Tre ingredienti naturali e una ricetta semplice, vecchia – è davvero il caso di dirlo – quanto il mondo. Le prime testimonianze storiche sulla birra risalgono a oltre cinquemila anni fa, ma molti indizi lasciano supporre che la nascita di questa bevanda, nella sua prima forma grezza, sia ancora più antica, praticamente coeva alla scoperta dell’agricoltura. Quello che è certo è che la bevanda bionda era largamente diffusa e apprezzata già molto tempo prima che si coltivasse la vite e se, come si suol dire, si beve vino fin dai tempi di Noè… Ad avallare le antichissime origini della birra, una leggenda irlandese narra di Cassair – nipote appunto di Noè – che abbandonò l’Arca con una piccola imbarcazione dove caricò, tra l’altro, il pentolone di coccio con cui preparava la birra. Quando finalmente approdò, si ritrovò sulle coste dell’Irlanda e scoprì che su quell’isola preparavano la sua bevanda preferita da più di mille anni, secondo una misteriosa ricetta custodita dai Fomoriani, antichi abitatori delle foreste metà uomini e metà uccelli.
Le prime testimonianze storiche ci portano nella culla della civiltà, tra il Tigri e l’Eufrate: al British museum di Londra è custodito il più importante reperto che riguarda la birra, il Monument Blau, una delle prime iscrizioni protocuneiformi scoperte sulle rive dell’Eufrate. In quella terra ospitale si sviluppò circa 5.000 anni fa la splendida civilizzazione sumerica, la cui bevanda nazionale si chiamava se-bar-bi-sag (letteralmente bevanda che fa veder chiaro) ed era straordinariamente simile alla birra dei nostri giorni, a parte la sostituzione del luppolo con altre erbe aromatiche presenti sul posto. «La Sumeria si trovava sulla costa del bacino del Mediterraneo; questo bacino fu di grande utilità, ai Sumeri, per produrre la birra. È da quel tempo d’altronde che si parla della caldaia del Mediterraneo – scrive Marcel Gocar in Questa buona vecchia birra -. Questo vantaggio tecnico e naturale permise ai Sumeri di entrare nell’era della Birra molto prima che l’uomo delle caverne potesse divenire l’uomo delle taverne. La birra nacque così sotto i tropici, più di ottomila anni fa, rendendo possibile la lotta contro il calore esterno e interno da una parte e contro le vicissitudini dell’esistenza dall’altra. La sete, così vinta in modo più che piacevole, fu civilizzata e l’acqua fu resa definitivamente potabile».
Nei codici di Hammurabi (il grande sovrano babilonese che regnò dal 1728 al 1686 a.C.) sono state ritrovate descrizioni molto dettagliate sul procedimento di birrificazione. L’orzo, che era il prodotto più diffuso in Mesopotamia in quell’epoca, veniva selezionato e poi messo ad inumidire; quando germinava veniva esposto al sole a seccare, per poi macinarlo ed impastarlo con acqua per produrre dei pani. Dopo la lievitazione spontanea, venivano cotti in un forno molto caldo: l’interno doveva infatti mantenersi morbido, protetto dalla crosta esterna. I pani venivano poi frantumati e bolliti con abbondante acqua calda in recipienti di terracotta. Il liquido così ottenuto veniva filtrato e aromatizzato con erbe, tra cui rosmarino e salvia.
Birra in busta paga
La grande importanza della birra nell’antichità non è testimoniata soltanto dalla sua enorme diffusione, ma anche dall’importanza che rivestiva nella vita economica e religiosa della civiltà sumerica prima ed egiziana poi. Molti salari, infatti, erano pagati in orzo e birra, e la sacralità di questa bevanda riaffiora in molti riti e in scritture sacre; tra le divinità sumere spicca anche una patrona della birra, Nidaba, la dea del frumento. Per gli egiziani, poi, la birra era un accompagnamento dalla culla alla tomba. I lattanti venivano infatti svezzati con una miscela composta da birra chiara (la più diffusa), acqua, miele e farina d’orzo. Una volta cresciuti ricevevano, in una vera e propria cerimonia di iniziazione, una piccola anfora che rappresentava la dose massima giornaliera di birra consentita; caraffa che avrebbe poi fatto parte del corredo funebre.
Sumeri ed egiziani diffusero il consumo della birra ai popoli loro vicini ed è lecito supporre che le scorribande dei romani in queste terre fece arrivare la bevanda anche nella nostra penisola. Nella Naturalis historia di C. Plinio Secondo è riportato che a Roma la birra era conosciuta ma poco consumata come bevanda: godeva invece di un certo successo come prodotto di bellezza. Era invece molto di moda nelle province dell’impero, dove ne circolavano due tipi: lo zythum, la classica birra chiara egiziana, e la cerevisia gallica.
Intanto i celti, che si erano stabiliti nell’Europa centrale, avevano adottato questa bevanda che arrivava da oriente e l’avevano trasmessa ai galli e agli altri ceppi nord-europei, tra cui i germani che, da allora in poi, hanno sempre fieramente conquistato tutte le classifiche dei bevitori di birra sul continente; e un’antica ballata tedesca ne fa risalire al mitico re Gambrinus l’invenzione.
Ben prima che arrivassero le legioni di Roma, i galli già coltivavano tutte le varietà conosciute di grano, oltre che il miglio e l’orzo, ed era noto il loro pane bianco – che poi fu molto apprezzato dalla Roma bene -, reso particolarmente soffice dall’uso di lievito di birra nell’impasto. La birra di Asterix era prodotta con malto d’orzo e luppolo. Il grano germogliato specificamente per produrre la birra era detto brace.
Nel medioevo quello che, delle civiltà trascorse, riuscì a salvarsi trovò molto spesso rifugio nei monasteri. E mentre in Irlanda gli amanuensi cattolici trascrivevano le leggende celtiche, nell’Europa centrale i monaci salvaguardavano e affinavano l’arte della birrificazione. Nascono così le birre trappiste, ricette che si sono tramandate nei secoli fino a noi, e quelle d’abbazia, ancora prodotte sulla falsariga di quelle monacali anche se spesso la loro fabbricazione ha lasciato il silenzio dei conventi.
Nel 1516 un celebre editto di Guglielmo IV di Bavaria detta le regole ufficiali per la preparazione della bevanda nazionale del mondo germanico: «In particolare vogliamo che d’ora in avanti nelle nostre città, mercati e paesi, non sia usata o venduta alcuna birra con altri ingredienti che non siano solo luppolo, malto d’orzo e acqua». Curioso era l’accertamento di genuinità del prodotto: i controllori versavano una pinta di birra su una panca di legno su cui poi facevano sedere il mastro birraio che l’aveva prodotta. Se i suoi calzoni di cuoio rimanevano incollati, voleva dire che aveva usato come aromatizzante la più economica resina. La pena consisteva nell’immersione del contravventore in un pentolone pieno della sue stessa birra: se era inverno, il liquido veniva gelato con pezzi di ghiaccio, mentre in estate il “bagno penale” era obbligatorio nella birra bollente.
Italia, terra di Bacco
In Italia la birra non ha attecchito subito. Popolo vinaiolo, gli italiani associavano con antipatia la bevanda schiumosa ai nordici invasori che ne facevano grande uso. Le prime vere e proprie fabbriche nascono all’inizio dell’Ottocento, ma si sviluppano soltanto nella seconda metà del secolo, dopo l’invenzione del freddo artificiale. Le cronache ricordano la prima riunione di comparto, nel 1872, cui parteciparono birrai da tutto il paese. Nel 1894 le aziende sono 150, per una produzione di 95.000 ettolitri. Nei dieci anni successivi il numero delle aziende si riduce ma le 90 residue, sparse sull’intero territorio nazionale, sono molto cresciute: è il momento del boom.
Poi un primo stop, causato dalla Grande guerra: l’impossibilità di importare malto blocca i birrifici. Ma alla fine del conflitto la produzione riprende e i consumi crescono in modo esponenziale. I vinai passano al contrattacco e con un’azione di lobby riescono nel 1927 a far approvare una legge a loro vantaggio: con il pretesto di favorire l’agricoltura, viene imposto ai birrai di utilizzare nella produzione il 15% di riso. Grazie anche all’aggiunta di una pesante tassazione e di vari altri balzelli, il settore della birra attraversa un momento nero. La situazione si aggrava con lo scoppio della guerra.
Negli anni Cinquanta si riparte praticamente da zero, rinnovando gli impianti, e la crescita è continua. Vengono introdotte le bottiglie formato famiglia, che danno un’immagine più popolare del prodotto, adatto anche per il pasto casalingo. Nel 1975 si toccano gli otto milioni di ettolitri di produzione e un import che supera i 570.000 ettolitri. Un altro momento di crisi viene comunque superato e, dagli anni Ottanta in poi, i consumi sono stati sempre in crescita.
(servizio pubblicato su Modus Vivendi)
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