La Olga Fernando dei gatti
- Stefania Marra
- 21 ott 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Sono le otto e siamo insieme a fare colazione. Arriva Lillo, il cocco di Angela, e va dritto da lei, cerca il suo sguardo, ma lei non capisce e allora comincia a miagolare. Non il solito maaa sottotraccia, ma un suono preciso, con tono fermo. Lei lo guarda e lo carezza, lui sembra seccato. “E dai, vuole il burro…” le faccio, e in effetti voleva la sua minuscola dose di burro che sancisce la colazione tutti insieme, ma oggi la mamma se ne era scordata. “Ti devo chiamare la Olga Fernando dei gatti”, dice allora ridendo mia moglie, che ormai si è rassegnata al canale diretto che ho instaurato con i suoi gatti: quando vogliono esprimere qualcosa, dai desideri alimentari alle esigenze pratiche (tipo spostare un ostacolo tra loro e la cuccia), vengono da me e mi parlano. Lo sanno che io capisco la loro lingua, e anche Angela, dopo più di una dimostrazione, si è resa conto che non è il delirio di una gattara.

Credo ci sia un motivo. Sono figlia unica di genitori anziani, quando non ero a scuola praticamente crescevo da sola, giocando a carte con mia nonna, litigando con mio padre, cucinando con mia madre. Ma avevo degli amici gatti. Alcuni giù per strada, che andavo a trovare tutti i giorni, li curavo se stavano male, ci giocavo, scavalcavo terrazzi per controllare le nuove cucciolate. Poi un giorno mia madre, che era andata dal macellaio, tornò con una strana cosetta sul bavero del cappotto, come una spilla vistosa. Era un micino siamese, minuscolo e terrorizzato. Per tre giorni rimase nella sua cuccia senza emettere un fiato. Va detto che poi ha recuperato alla grande, diventando un temibile gatto da guardia.
Fu il primo di una serie copiosa di felini che ha accompagnato la mia vita, arricchendola e rendendola di certo migliore. Da piccola, per comunicare con loro, imparai a miagolare. Ancora oggi sono in grado di farlo e soprattutto mi viene benissimo soffiare e ringhiare. Sono stati i miei compagni di gioco e di crescita da bambina, sempre accanto nelle disperazioni adolescenziali e poi nelle depressioni dell’età adulta, ma anche ovviamente nei momenti di gioco, divertimento, condivisione di grigliate e cipster.
Quindi ci siamo sempre studiati a vicenda. Cosa che ha permesso loro di imparare a convivere con una persona spesso triste, a volte schizzata, con impennate di rabbia e stress a gogo. Imparavano subito cosa non fare, e poi magari piano piano cercavano di ammorbidire le mie regole. E io ero sempre ricettiva con tutti loro, ognuno col suo carattere e modo di comunicare, con le sue passioni e idiosincrasie, e anche con un linguaggio diverso. Quarant’anni e più di studio sul campo, che il gotha degli etologi me spiccia casa.

Come immaginerete, la prima cosa che imparano è “no”, poi il loro nome, poi “pappa”. I miei gatti, più o meno tutti, già nel primo anno di vita imparano anche ad esprimere il loro desiderio di cibo con un miagolio specifico. Per Baku ad esempio era un suono molto simile a quello che dicevo io, una specie di “à-aa”, mentre Maki ha sviluppato una “parola” tutta sua, una specie di “ggnà” che comprende anche un’aspirata e uno schiocco. La cosa più curiosa se l’era inventata Red, gattone appassionato di formaggio, che ha anche affinato il suo gusto crescendo: sottilette da cucciolo, fino agli stagionati da grande. Quando Red chiedeva da mangiare usava un suono simile a quello di Baku (facevano parte dello stesso gruppo familiare), ma quando voleva formaggio diceva chiaramente “ao”.
Questo contato così stretto con i miei felini è il segreto anche del successo di una sorta di addestramento di base, certo non per farne dei pupazzi da circo ma per una più serena convivenza. Prendiamo ad esempio Maki, il mio attuale pupo: non è ovviamente un micio standard, ha avuto una prima infanzia molto traumatica che ha lasciato segni profondi nella sua psiche. Angela dice che è bipolare; in effetti si trasforma in un attimo da dolce puffetto coccoloso in belva aggressiva con unghie e soprattutto denti pericolosi.

Un tipetto molto intelligente e dal carattere forte, a tratti riottoso, al tempo stesso fifone e bulletto (come lo definisce la co-mamma), territoriale e imprevedibile (non per me). Eppure Maki ha imparato a controllare il suo impulso a fiondarsi nelle ciotole altrui, retaggio di una forte carenza di cibo che da piccolissimo lo ha portato a un passo dalla morte. Oggi basta dirgli “seduto e aspetta” e lui ubbidisce; a volte funziona anche solo un’occhiata di sbieco o un cenno del capo, quando a tavola chiede di assaggiare cosa stai mangiando.
Scriverei per pagine e pagine dei miei gatti, ma ora devo andare: Nicole è sdraiata al sole e chiede una pettinatina. In fondo, perché non accontentarla? Ai gatti basta poco per essere felici, dovremmo imparare da loro.
che bella lettura..il rapporto con gli animali è sempre speciale, loro imparano la nostra lingua molto prima di noi la loro...leggo e penso a quando ho imparato a capire Jodi e Briciola, e Bingo, e a quanto ancora devo scoprire Pedro. e hai ragione, i gatti, ma anche i cani, ci indicano la strada della felicità...sta a noi impararla