Il Colosseo si dà alle arie
- Stefania Marra
- 4 feb 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Ero già stata al Colosseo. Non ricordo bene quando, comunque nello scorso millennio, una gita con le scuole medie. Da qualche settimana mi era venuta voglia di andare a fare un po’ di giri culturali, e in cima alla lista c’era proprio il Colosseo. Nell’attesa che scattasse la fascia gialla ho deciso di preparare la visita guardando il sito, e ho così scoperto che proprio il primo febbraio, giorno da me designato per questo Grande Passo verso la storia, l’arte e la cultura, l’Anfiteatro Flavio avrebbe ospitato un concerto per la riapertura del monumento alle visite dopo ben 87 giorni di chiusura. Un segno del destino.

Ci sono passata così tante volte accanto pensando ora ci vado, che quasi non mi sembra vero: sto davvero varcando il cancello d’ingresso… Misurazione temperatura, gel per le mani, inforco gli auricolari e avvio l’audioguida. La visita inizia al piano superiore, per cui mi arrampico su per delle ripidissime scale. Mi è appena passato il fiatone quando leggo come erano designati i posti, e provo uno slancio empatico per gli sfigati cui era riservato l’ultimo ordine di sedili in alto.

Il concerto inizia alle 12.30, ho il tempo di completare la visita e poi raggiungere le gradinate nell’arena destinate alla stampa. Non mi attirano i “soliti” reperti di cui è piena l’Italia: monili, lanterne, pezzi di ossa, piatti, attrezzi della vita quotidiana. A pensarci è incredibile, ma chi ha la fortuna di nascere nel Belpaese, in particolare nel Sud, a queste reliquie di un lontano passato è assuefatto fin dall’infanzia. Però ci sono delle cose che attirano la mia attenzione, come dei minuscoli dadi, i graffiti fatti dagli spettatori sui marmi, una riproduzione della Grande torre di Babele di Bruegel (1563), affascinante e tetra rappresentazione del Colosseo come luogo in cui si incarna il male.


Come sempre però quel che mi affascina di più è la costruzione, le arcate che si stagliano contro il cielo ancora azzurro, i resti dei sotterranei in cui tanta vita è passata, vita con un forte odore di morte. Uno scenario suggestivo che raccoglie come un nido – questa è la mia sensazione – le voci degli allievi del Conservatorio di Santa Cecilia.
Un uomo, due donne, un maestro canuto al piano (Giuseppe Massimo Sabatini), che ha lottato e vinto contro il vento che provava a portargli via i fogli durante le esibizioni. Ci sono anche dei visitatori nell’anello superiore che si fermano a godersi il concerto, saranno stati in tutto una ventina grazie agli ingressi contingentati, in parte ben accalcati su un affaccio alle nostre spalle.
Le prime note, i cantanti si alternano ai microfoni. Sono quasi tutte arie ben note anche agli ignoranti d’opera come me: dalla Traviata alla Bohème, per finire con un arrangiamento a tre voci de La vie en rose di Édith Piaf. Alcune esecuzioni mi colpiscono più di altre, vuoi per il brano (la Carmen mi è particolarmente cara), vuoi per l’interprete. Sono bravi tutti e tre, ma l’impatto è completamente diverso: Marco Ciardo (tenore) trasmette forza, Sara Tiburzi (mezzosoprano) calore, ma è Olimpia Pagni (soprano) che spicca, con la sua voce cristallina che fa vibrare queste antichissime pietre e provocare brividi. E che a concerto finito regala a chi si è attardato una bonus track, un’improvvisata Summertime per i pochi intimi “raggruppati” (in tempi di Covid il termine ha cambiato in parte significato…) attorno al piano.
Il concerto è stato trasmesso in diretta su Youtube, lo trovate a questo link.
anche io ho visitato il Colosseo anni fa, accompagniai una classe. Mi hai fatto venir voglia di tornarci. Grazie, anche per il concerto, molto bello!